Perché raffigurare il Buon Pastore nelle vesti di un bimbo? Tutta la raffinata soavità del tratto di Murillo, in quest’opera della sua maturità artistica, è impegnata ad esprimere il mistero profondo della dolce e incondizionata misericordia di Dio.
Lo fa però congiungendo immagini bibliche differenti, al fine di farne comprendere il tratto più autentico. Essa qui assume le vesti del pastore che ha cura del gregge, così come descritto in Giovanni 10,11-18: “Io sono il Buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le pecore”. Nello stesso tempo, l’artista evoca in modo splendido la parabola di Luca della pecora smarrita, che viene raggiunta dalla carità del Pastore divino: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?” (Lc 15, 4). C’è di più: il grande pittore iberico ha voluto sottolineare qui qualcosa di profondamente teologico. Riprende infatti dal testo di Giovanni la nota più cristologica, evidenziando quanto la carità del pastore, oltre a compromettere il destino del Figlio con quello della pecora smarrita, riveli soprattutto l’identità del Verbo: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Gv 10, 14-15). Come mostrare in modo più sublime ed evocativo la qualità di figlio del Verbo, se non descrivendolo come un bimbo al pascolo insieme alla pecora perduta?
La tenerezza di Dio, la tenerezza della sua misericordia è quindi in se stessa vera kenosi divina, come direbbe Paolo: il suo “svuotamento” ci ha raggiunto in ogni dispersione e in ogni lontananza, non impegnando una parte di sé, ma direttamente coinvolgendo il Figlio benedetto nel nostro destino. Quale maggiore carità!?
P. Saul Tambini
Bartolomé Esteban Murillo, Il Buon Pastore, 1660, Museo del Prado – Madrid.
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