La rappresentazione del Salvatore, fino a questa devota opera di Juan de Juanes, esperto pittore rinascimentale spagnolo, si concentrava sulla signoria divina sul mondo. Dalle icone bizantine a Leonardo, da Antonello da Messina a Palmezzano, con poche varianti, il Salvatore è stato celebrato centralizzando la sua ieratica figura ora con il libro in mano, ora con una sfera. Al termine del Concilio di Trento, il grande pittore spagnolo profonde la sua devota opera a servizio del mistero eucaristico. Quest’opera è significativa proprio per il fatto che ora la celebrazione della signoria divina non avviene se non nella modalità con cui Cristo stesso continuamente dice sé sull’altare: “Questo è il mio corpo”. A pensarci bene si tratta di parole piuttosto sorprendenti, d’altronde i suoi interlocutori, nel vangelo di Giovanni, già si chiedevano: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (Gv 6,52). Carne e salvezza non sono temi che vediamo facilmente associati: l’una sembra l’opposto dell’altra. Facilmente salvezza per noi significa liberazione dalla carne. Il vangelo e l’Eucarestia non fanno che annunciarci esattamente il contrario: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita” (Gv 6,55). Quindi, la salvezza passa ora attraverso la carne di Cristo e ciò che era segno di debolezza diventa una riserva di forza e di liberazione.
P. Saul Tambini
Juan de Juanes, Il Salvatore, 1560-1570, Museo del Prado – Madrid.
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